Anna Lombroso per il Simplicissimus

Il ministro Fornero vorrebbe tavoli telematico-informatici per la discussione con le parti sociali, in attesa, forse, di piegarli alla chat. Il ministro Severino all’inaugurazione dell’anno giudiziario fa sapere a noi increduli e immagino anche a quegli ingrati dei detenuti oltre che alle migliaia di cittadini in attesa di giudizio o addirittura di giustizia, che le misure di informatizzazione lungi dall’essere semplicemente interventi strumentali di razionalizzazione, rappresentano i capisaldi della strategia della crescita, quell’edificio di azioni per lo sviluppo che magicamente trasformeranno i sacrifici in aspirazioni e l’austerità in benessere, per non dire felicità.
Uno dei passaggi del discorso del Presidente del Consiglio al Senato sembrava un corso per piazzisti della Fideuram, nel più esemplare gergo delle convention o delle vendite piramidali, quello fatto per umiliare gli italiani più della poltrona di fantozzi.

Se non fossimo così esasperati, forse guarderemmo con una certa indulgenza all’innocente pretesa dei nostri locali profeti del liberismo di convincerci che la globalizzazione si governi con la padronanza dell’inglese finanziario, che i contenziosi sindacali di risolvano con l’informatica, ma senza garantire la banda larga, e che al posto dei diritti basti l’innovazione, che la semplificazione delle regole avviata clamorosamente oggi, persuada al loro rispetto.
In giro per il mondo ci si interroga se quella che viviamo è una crisi “terminale” del sistema, se la severità repressiva in nome della necessità valga la fine della socialità, l’eclissi dell’equità e le tenebre sulla solidarietà. Qui invece si sparge un po’ della cipria della privatizzazione sulle rughe di un paese invecchiato e che non cresce da quando era bambino e coraggioso, e ci si illude che tutto il male sia ancora curabile all´interno delle regole di un´economia di mercato e di un regime del profitto. E la ricetta consisterebbe nella modernità. Eh si, bisogna stare al passo anche nella catastrofe, anche nell’immoralità delle disuguaglianze sempre più profonde. Naturalmente al passo dei potenti che lascia indietro i deboli, illusi di parlare la stessa lingua quella dell’Occidente, non quella dei Bric, convinti che sia quella del futuro e non quella della crisi, che così da “ammessi” alla tavola del capitalismo finanziario, si possano avere almeno delle briciole di quel progresso, di quella abbondanza alla quale sembra non si possa rinunciare.

In barba all’innovazione, al progresso, alla modernità, questa renitenza a vedere cosa ci succede intorno è vecchia senza essere antica, come succede quando si è talmente persa la memoria da compromettere anche la vista: l’ideologia di mercato su cui si è collocato il capitalismo finanziario è accecata dall’avidità, dall’aspirazione all’accumulazione, ha generato società sempre più ineguali, la indebolito lavoro e coesione sociale dando forma a sistemi politici dove le oligarchie esercitano un´influenza spropositata.
La tecnologia e l’informazione sono strumenti: da un lato fanno circolare conoscenza e moltiplicano partecipazione. Dall’altro sono al servizio del gioco d’azzardo della “moneta” immateriale, con le sue promesse e le sue illusioni.
L’avidità è una pulsione incontrollabile e smaschera l’equivoco caro agli economisti di una volta: così l’istanza dell´arricchimento investito nella produzione non si tradurrà in ricchezza per tutti, anche se in misura differente per ciascuno. Dall´avidità non nasce la prosperità, così come dal vizio non può scaturire magicamente la virtù. Sempre di più il mercato si rivela un meccanismo inadeguato a gestire beni universali ma scarsi come l´acqua, l´aria, le risorse naturali. E ora anche la sicurezza sociale, l’istruzione, l’assistenza, la salute, ostaggi delle regole della concorrenza più spietata tra poteri privati, rendite invincibili, ceti inamovibili, che rendono la prosperità di pochi un circolo chiuso sul quale si avvita un arricchimento “celibe” e esclusivo.

Se il progresso, la modernità dovrebbero servire per costruire una società più stabile e duratura, con minori differenze e più comprensione degli altri mondi da noi, allora sono evaporati dalla nostra contemporaneità, sono diventati inafferrabili nella nostra vita sociale e con essi il valore e la dignità del lavoro, la forza buona della comunità, il rapporto tra lo spazio ed il tempo, e forse l’idea di libertà e quella, ad essa legata strettamente, di emancipazione dell’individuo da tutte le servitù.

Il secolo breve è sfociato velocemente nell’età dell’incertezza. E chi sperava che il progresso tecnologico, il superamento della fatica e della catena di montaggio, la scienza con la scomparsa di malattie, avrebbero riscritto il contratto sociale ha scoperto che il passaggio dalla vecchia alla nuova modernità significa sfrenata deregolamentazione e flessibilizzazione dei rapporti sociali, insicurezza, diffidenza, competizione e conflittualità violenta, invidia. E isolamento: siamo abituati a pensare che affermazione, successo, o giù giù garanzie, o ancora più giù sopravvivenza, dipendano dall’azzardo, dalle protezioni, da processi estranei alle capacità e ai talenti, condizionati dalla possibilità o meno di consumare e acquistare perfino il lavoro diventato una merce, come dalla benevolenza di entità superiori. Così nel tramonto delle capacità e delle competenze, come di una autorità centrale, siamo terribilmente soli, senza sogni e senza utopie, nemmeno quelle del progresso che ci affranca, nemmeno quelle dell’evoluzione che ci salva, nemmeno quelle della solidarietà che ci sostiene. Dobbiamo ricominciare a guardare dentro e fuori di noi a quelle radiose visioni, altrimenti il tempo nuovo segnerà la rinuncia alla felicità.