Anna Lombroso per il Simplicissimus

Alla giunta di Pisa mettersi al servizio delle pretese dell’Ikea doveva essere sembrato un doveroso omaggio al mercato, tanto da adottare una variante di piano per dare ospitalità all’ insediamento  di un megastore.

Ma per Barroso la buona volontà non basta: con arrogante prosopopea   il presidente della Commissione rimbrotta il governatore Enrico Rossi per i ritardi nella concessione dei permessi: le lungaggini italiane “sono state negative” e sono un “cattivo esempio per quanto riguarda il rilascio dei permessi per nuovi insediamenti produttivi”, che penalizza gli investimenti stranieri e  vanifica i benefici per la collettività.

Con un sussulto encomiabile di dignità istituzionale il presidente della Toscana ha difeso tempi e modi della giunta pisana, ricordando come fosse già stato fermato un disinvolto progetto del colosso svedese da realizzare a ridosso del Parco di Sam Rossore e rivendicando la scrupoloso ed efficiente gestione della procedura di autorizzazione, riconosciuta e apprezzata dalla stessa Ikea.

L’accaduto dovrebbe preoccuparci: un’Europa impotente e disunita, segnata da disuguaglianze e prevaricazioni, affida al borioso Barroso il compito censorio di tutelare il profitto dei forti nel dispregio delle regole dei deboli.

Eppure  l’Europa, intesa come Unione europea, è divisa in due: non tanto tra nazioni deboli e stabili, popoli viziosi e virtuosi, porci e porcari (Pigs). La linea di demarcazione è  disegnata dai mercati: una massa sterminata di denaro e “simildenaro” (valute, bond, certificati di credito, derivati, futures) la cui consistenza è stimata da 10 a 20 volte il Pil mondiale; che può spostare (esentasse) in poche ore tanto denaro quanto tutte le banche centrali del mondo non ne riescono a creare in un anno. E oltre confine  ci sono i cittadini dell’Unione, sempre più simili, nella loro condizione di impotenza e di dipendenza dai diktat della finanza, agli altri 6 miliardi e mezzo di esseri umani che popolano il pianeta.

Niente di quello che accade o accadrà loro dipende più da una loro scelta: né individuale» (esercitando la cosiddetta «sovranità del consumatore»), né espressa a maggioranza (esercitando la loro asserita «sovranità» di cittadini). Persino le differenze tra un cittadino greco, italiano e tedesco si attenuano di giorno in giorno: tutti vivono ormai sotto la cappa di una catastrofe economica su cui non hanno alcuna possibilità di influire.

Suona così ridicola l’attribuzione a sé di un superiore incarico di tutela   delle magnifiche sorti del progresso,  da parte dell’esecutivo di una formazione sgangherata e litigiosa di stati che non hanno saputo tutelare né interessi interni né tantomeno sovranità.

Ma deve preoccuparci anche l’immagine della città cui guarda l’ideologia che muove la dirigenza europea e il governo Monti, ben rappresentata ed espressa nell’affresco delle liberalizzazioni. Una città che si gonfia in un perverso gigantismo, perde la sua fisionomia in una combinazione disordinata di arcaismi e ipertecnologie, in una miscela di rifiuti abbandonati e hi tech, prevedendo una transizione aberrante da metropoli a megalopoli a postmetropoli a necropoli.

Una volta varcata la soglia della globalità, per le città non è possibile tornare indietro. Come potrebbero, Città del Messico o Pechino, con i loro venti-trenta milioni di abitanti, rientrare dentro  le “mura”  della città novecentesca?  O ricollocare l’animato brulicare de Il Cairo o di Los Angeles nella forma sociale oltre che urbanistica della polis?

Le  città si avviano ad essere “globali” secondo Sassen, “reticolari” secondo Castells e “infinite” secondo Bonomi. Sempre più guerreggiate per conflitti tra spazio e tempo, tra poteri e interessi, tra desideri e consumi frustrati, tra bisogni e  diritti, tra autoctonia e etnie.  Sempre meno sociali e sempre più commerciali, dove lo struscio nel corso cittadino è sostituito dal pieno in grandi stazioni di rifornimento liberalizzate, in virtù delle quali si spendono i quattrini risparmiati per tornare a casa, dove centri commerciali a temperatura costante senza stagioni e cielo prendono il posto delle piazze antichi luoghi dell’incontro e della memoria collettiva. E dove l’imperativo è desiderare e comprare, consumare e desiderare, senza incontri, senza sorprese, senza amicizia, gente di passaggio.

Nel  conflitto inesauribile e insanabile con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento le città perdono e con esse i cittadini. Nella modernità rapace – non citerò il troppo citato Calvino – le città non sono invisibili, sono vistose, non sono leggere, sono pesanti, non sono amichevoli, hanno rotto i patti con il paesaggio e l’ambiente, non sono potenti, sono violate nella loro armonia, non sono solidali, hanno ceduto a ghetti volontari in difesa di una malintesa sicurezza, non sono rispettose, si sono consegnate al cemento e alla speculazione.

E non sono sociali, né compassionevoli:  I comuni non hanno più risorse per realizzare servizi sociali, parchi, trasporti scuole. Per tenere in piedi i bilanci, i comuni e le loro società strumentali invece di cercare di risparmiare, sono andate dalle banche d’affari., facendo  ricorso all’indebitamento sottoscrivendo quei titoli spazzatura che hanno portato al tracollo l’economia occidentale. Roma ne ha sottoscritti per oltre un miliardo di euro. Milano un’altra valanga, e così via.
Per tenere in piedi i bilanci, poi, tutti i sindaci, di qualsiasi colore politico, affermano che l’unico modo è quello di moltiplicare all’infinito nuove costruzioni. E il governo torna sulle ipotesi di svendita del patrimonio pubblico, che passa anche attraverso la liquidazione del territorio consegnato a spregiudicati investitori, quelli che piacciono a Barroso.

A chi rimprovera i critici di non essere costruttivi c’è da rispondere che per una volta la soluzione sarebbe proprio nel non costruire. Ma di bloccare per legge ogni espansione urbana, vincolando i comuni a ricollocarle all’interno delle aree già edificate e in stato di abbandono.  E di   rivedere il sistema degli   accordi di programma, che è piaciuto tanto al pragmatismo non solo berlusconiano. E di costringere i comuni   al rispetto di regole severissime di controllo della spesa. In fondo abbiamo qualche speranza che si possa fare qualcosa: e magari è proprio colpa di Pisapia.