Da due trimestri il Pil italiano è tornato a calare e dunque siamo ufficialmente in recessione. Non è una sorpresa: molti di noi affrontano questa realtà nella vita quotidiana e un 2012 da brivido è stato annunciato prima dall’ Ocse e poi dalla stessa banda a delinquere Fmi che ha previsto un calo del 2,2%. Certo il Fondo monetario internazionale lo dice con un certo orgoglio: prima di collaborare attivamente a imporci la cura e i medici, aveva pronosticato- nel settembre scorso – una crescita dello 0,3%, segno che i suoi “consigli”  si rivelano sempre di straordinaria efficacia sulla via dei disastri.

E tuttavia ancora ieri a Strasburgo, come in un film dei fratelli Cohen, abbiamo sentito il premier lanciarsi in un insensato ottimismo autoincensatorio, soprattutto vantandosi di aver tolto l’Italia dalla zona d’ombra nella quale era entrata rischiando di mandare all’aria la dottrina economica e di bilancio europea. L’Italia insomma non è più un pericolo per la visione tedesca o ancor meglio per quella della Merkel. Qualunque cosa se ne possa pensare è evidente che questo adeguamento a Berlino sta avvenendo sulle spalle del Paese e del suo futuro, dentro una noncuranza sostanziale per l’Italia.

Ciò che balza agli occhi nella discrasia fra i discorsi e la realtà che ha inquietanti similitudini anche numeriche per ciò che riguarda il Pil con la Grecia del 2010, è che la salvezza, almeno quella presunta, è vista in un’ottica di marginalizzazione del Paese, ridotto a fare da sponda ai più forti, a serbatoio di lavoro a basso costo, privo di diritti e tutele altrove essenziali, sottoposto a svendite di beni di famiglia. E’ il modo di trasformare un concorrente in una colonia, situazione dalla quale occorreranno generazioni per risollevarsi.

A me pare evidente che quando si sostiene che i diritti del lavoro in sé sono un freno all’economia e quando tra tante belle parole ci si “dimentica” per l’ennesima volta e con una pervicacia tutta berlusconiana, di sottoscrivere la convenzione europea anticorruzione che pure è  la maggiore piaga dell’Italia non si lavori altro che per creare una enclave dell’est all’ovest. E si tenti di compendiare la vorace oligarchia locale, della quale del resto molta parte dell’esecutivo fa parte,  con la svendita sostanziale di attività  e di conoscenza ai potentati già pronti ad intervenire.

Il contentino fornito all’opinione pubblica cercando di strappare alla Chiesa un po’ più di Ici (vedremo però con quali compensazioni che pare siano già sul tavolo)  o le sceneggiate dei blitz della finanza i quali scoprono che bar, ristoranti e negozi evadono, persino – cosa insospettabile – nei bassi napoletani  ( a Sanremo il blitz mediatico più forte non è riuscito, perché qualcuno aveva avvertito due settimane prima), lasciano il tempo che trovano anche se calano dentro un paese che vive delle sensazioni del momento.  E di un’equità priva di sostanza. La realtà è forse più simile a quel bando di concorso lanciato dal ministero dell’Istruzione su progetto dell’università di Firenze: Dalla pecora al pecorino: tracciabilità e rintracciabilità di filiera nel settore lattiero caseario toscano. La traduzione in inglese mirabilmente proposta due volte è stata From sheep to Doggy Style:  traceability of milk chain in Tuscany, ovvero dalla pecora alla pecorina. Una sintesi politica straordinariamente efficace.