Una delle primissime interviste che mi capitò di fare fu sul valore legale della laurea. Correvano gli anni ’70 e un barone di Medicina, vicino al Pli, che forse voleva arrivare alle orecchie e alle simpatie di Zanone, insisteva per parlare dell’argomento chiedendo non senza una certa protervia, l’attenzione della stampa. Fui mandato io – per competenza – perché fino a pochi mesi prima ero assistente nella medesima Alma mater studiorum bononiensis e dunque probabilmente in grado di interpretare bizzarrie e modi baronali.
Il fatto che lavorassi in un giornale non suggerì al capocronista la possibilità che non fosse proprio così, ma comunque mi avviai nella desolazione quasi estiva all’appuntamento. Presentazioni, chiacchiere, velate accuse di insensibilità ai grandi temi e finalmente l’argomento fine di mondo sulla soppressione del valore legale del pezzo di carta. Non ricordo più molto bene che gli argomenti, ma solo il fatto che ogni capitolo di quel trionfale rosario terminava con un ” non crede”?
Alla fine mi stufai e dissi che no, francamente non credevo, che forse in un mondo ideale, il razionalismo un po’ artefatto di quei ragionamenti avrebbe potuto essere preso in considerazione, ma che in sostanza il risultato che si sarebbe ottenuto era quello di escludere i meno abbienti dall’università. Non ci voleva molto a capire che il valore si sarebbe trasferito completamente da quello legale a quello della singola scuola o università: chi poteva permettersi di pagare tasse alte, spese di soggiorno, viaggi all’estero sarebbe stato enormemente favorito.
Gli chiesi ” non è vero”? E lui dovette ammettere che si il rischio era quello, ma che in realtà non ci aveva pensato.
Non è che già allora non si guardasse, specie in alcuni ambiti alla scuola e alla facoltà dove l’ambito cartiglio era stato ottenuto, ma la situazione universitaria italiana era fluida: anche università considerate mediocri potevano avere istituti di eccellenza o magari singoli insegnamenti e naturalmente vicerversa. Insomma era una situazione in qualche modo bilanciata.
Così proseguii: la perdita di valore legale e l’acquisto invece di valore in ragione del reddito familiare degli studenti, non era solo ingiusto, ma innescava un meccanismo per cui la buona università con gli studenti di buona famiglia, sarebbe diventata sempre più buona e quella mediocre sempre peggiore.
“Non è vero?” Questa volta resistette sugli spalti inalberando l’elemento principe. “Ma in America è così e tutto funziona meglio che da noi”. Già l’America, sopratutto quella che si credeva che fosse. Gli feci notare che non era proprio così: che certo c’era una discriminazione tra chi poteva permettersi Harvard o Yale, dove studiava la classe dirigente della East Coast, ma che quando si parlava di ricerca e di eccellenza lo stato federale o gli stati provvedevano per più del 70% delle spese e dunque la privatizzazione formale era molto meno significativa. Il sistema inoltre permetteva una vivace migrazione di docenti che nella magari nell’università minore trovavano fondi per le ricerche nelle quali erano versati.
Aggiunsi che i difetti di cui soffriva l’università italiana non era dovuta al fatto che le università fossero pubbliche, ma al tipo di gestione del pubblico, alla collusione continua con la politica, allo spirito di clan che avviliva la meritocrazia.
Non so come fu, ma dopo questa conversazione il barone decise di orientare l’intervista su altri temi e a suo onore debbo dire che telefonò al giornale dicendo di aver avuto una conversazione interessante e per qualche verso illuminante. erano certo altri tempi. Oppure no perché a 40 anni di distanza siamo sempre ai medesimi argomenti e alle solite chiacchiere, al solito sistema e a quel modo di pensare cristallizzato come un caramello mal riuscito. Qualcosa di avvilente per un Paese superficiale, privo giudizio, ma gonfio di pregiudizi e di tic mentali. Anche perché il “sistema” ha favorito la mediocrità, le personalità elastiche solo nei compromessi, la banalità del consenso e forse come possiamo constatare competenze tutte da discutere.
In realtà però un cambiamento c’è stato: quel barone di 40 anni fa non pensava che l’eliminazione del valore legale avrebbe escluso le classi popolari perché in fondo aveva ancora un’idea della scuola come inclusiva. Adesso lo si vuole eliminare proprio per raggiungere questo scopo: alla fine di un lungo tragitto mentale e grazie al traghettatore Berlusconi, l’iniquità sociale diventa un vanto e non più una vergogna.
E’ anche per questo che un genio della truffa è riuscito a inventarsi un’università privata che ha distribuito lauree honoris causa a mezzo mondo, non solo a Lino Banfi, non solo a schiere di onorevoli e di imprenditori, ma anche all’accademico Buttiglione, riuscendo ad avere anche il “compiacimento” del Quirinale. Centodieci e lode per l’ Italia dei pezzi di carta privati ed ad alto rendimento e per i pezzi di ogni genere.
IL VALORE DELLA LAUREA E’ QUELLO CHE VIENE DATO DAL MERCATO ,E’ INUTILE PRENDERE UNA LAUREA PER UNA SPECIALIZZAZIONE CHE NON HA RICHIESTA.PER ESEMPIO FACCIO UN CASO…..FILOSOFIA…..SCIENZE……COMUNICAZIONE…..MA RIPETO SONO SOLO ESEMPI.QUANTE POSSIBILITA’ DI IMPIEGO CI SONO…?
E ALLORA….? IL GIOCO E’ FATTO.SENZA CONTARE CHE CI SONO CORSI CON DUE TRE QUATTO ALLIEVI….!!!!
E il mercato da chi prende valore? A forza di ripetere mantra si perde completamente di vista la sostanza delle cose. Ma questi sono problemi teorici. La sostanza pratica è che intanto la laurea ha un valore legale intrinseco visto che senza quella non si possono svolgere molte professioni. In secondo luogo è del tutto evidente che il valore individuale è decretato dalla propria capacità, volontà e intelligenza. E’ semmai su questo che dovrebbe operare il mercato, non sull’etichetta attribuita a questa o a quella università che anzi ne rappresenta un’alterazione in favore dei più ricchi. In terzo luogo francamente non capisco cosa c’entri il mercato del lavoro con le scelte di studio delle persona né con il valore legale o meno della laurea. Ognuno fa le scelte e affronta i rischi che crede. Tra l’altro uno potrebbe anche laurearsi per mettersi su un mercato più ampio di quello nazionale. E’ ben strano invocare un intervento dello stato volto a orientare in qualche modo le scelte individuali che poi si dice debbano appartenere al mercato.
SI LEGGE TUTTI I GIORNI DI GIOVANI O MENO CHE ANCHE AVENDO IN MANO IL PEZZO DI CARTA ,CHE COSI’ SI CHIAMA FINO A QUANDO NON VIENE MONETIZZATO.SI IL FATTO E’ QUESTO,NON BASTA AVERE IL SAPERE .VA MESSO IN PRATICA.E LA STESSA COSA PER L’APPREN
DISTA VA AL LAVORO E DA’ QUELLO CHE PUO’,POI CON LA PRATICA
E LA FIDUCIA DEL DATORE DI LAVORO AVRA’ I RICONOSCIMENTI DOVUTI.SUL FATTO CHE CI SIANO LAUREE SENZA SBOCCO INSISTO.
MEGLIO UN BUON LAVORO MANUALE.