A leggere i giornali viene lo sconforto. Non per quello che accade, ma per quello che ci dicono stia accadendo o accadrebbe, per le analisi parziali, menzognere, nel migliore dei casi imbastite da dilettanti allo sbaraglio che riempiono il web di considerazioni ispirate a un inedito millenarismo monetario. La povera Atene, già massacrata dalle troike, trova Cassandre disponibili alla sveltina giornalistica del malaugurio, nel caso si permettesse di uscire dall’euro.

Naturalmente non sarebbero rose e fiori, ma di certo le cose non stanno affatto così come si dice: il cambio di moneta implica calcoli complessi e non le cifre sparate a casaccio. Di certo a soffrirne sarebbero più le banche europee che la Grecia almeno nel medio periodo e questo è già una delle ragioni che spinge ad esorcizzare l’evento. La seconda è che sulla vicenda euro, che riguarda gli assetti continentali, il pasticciato accordo di Maastricht, si è inserito come un parassita, come una scimmia sulla spalla il potere finanziario che ha trovato modo di fare della moneta unica un cavallo di troia per “ammorbidire” la democrazia e saccheggiare i diritti.

Lo può fare proprio grazie ai difetti dell’euro che è al tempo stesso una moneta comune e una moneta straniera per tutti, una divisa abbandonata ai mercati, ai gruppi di pressione,  agli interessi dei più forti, senza una vera banca centrale con possibilità di battere moneta. Così la vicenda greca ci mette di fronte a un bivio: o la moneta unica diventa la divisa di una reale unione politica oppure si deve vagliare attentamente la convenienza di rimanere dentro questa gabbia di ferro che ci strappa sovranità senza dare nulla in cambio e che ha, tra l’altro, inquietanti risvolti politici. Si deve scegliere tra il cercare di essere solventi in una moneta straniera con l’impoverimento generale, un declino non più recuperabile del Paese, con un evidente pericolo per la democrazia per non parlare di quello sempre più concreto di default o sopportare l’inflazione e tutte le altre conseguenze di un ritorno alla lira che permetterebbe però di essere contemporaneamente solventi e di recuperare competitività sul differenziale di cambio e non sulla svendita di diritti e beni pubblici.

E’ fin troppo evidente che i grandi gruppi autoctoni, quelli stranieri interessati all’asta del Paese e i filosofi della “riduzione della democrazia” tra cui figura anche l’attuale premier, sono assolutamente per la prima ipotesi che permette di ottemperare alla religione del profitto mettendo sotto ricatto il lavoro e sbaragliando l’idea stessa di diritti, facendo di tutto il lavoro italiano il famoso esercito di riserva, finora stanziato altrove. Resta da vedere se la società nel suo complesso possa reggere un impatto del genere, se 25 milioni di lavoratori e 16 milioni di pensionati, quasi tutti impoveriti, se milioni di precari a vita rimarranno in costante stato di rassegnazione. E in questo senso l’Italia è diventata una specie di laboratorio del dottor Mabuse del liberismo, con tanto di advisor della Goldman Sachs a controllare l’esperimento. Non è un caso che alle prime esplosioni di malcontento si sia subito calato l’asso del terrorismo e dell’esercito.

Ma anche se la classe dirigente italiana, nel suo complesso ha trasformato l’euro e l’europeismo stesso da fattore di sviluppo e di civiltà a uno scarno feticcio funzionale ai propri interessi e privilegi oligarchici, grazie al quale si è arrivati a cambiare la costituzione nella sua lettera e soprattutto nel suo spirito attraverso leggi ordinarie, senza nemmeno uno straccio di referendum, non è detto che la tempesta ormai innescata e la sempre maggiore resistenza dei popoli a ciò che viene presentato come rigore, ma di fatto è un saccheggio, non porti a uno sfascio della costruzione così malamente concepita. Ci si potrebbe trovare di fronte a una scelta imposta dai fatti. E allora occorre avere un piano B con il quale definire tutte le complesse operazioni tecniche necessarie a un cambio della moneta tra cui la messa a punto di un tasso di cambio non deflattivo, ma nemmeno troppo penalizzante: nella situazione attuale, sarebbe semplicemente criminoso non averlo.

Ce l’abbiamo? O la classe dirigente è troppo superficiale, troppo affondata nei propri interessi di bottega, troppo ideologizzata in senso liberista da prendere in considerazione questa possibilità? Sarebbe davvero un suicidio. Ma del resto l’Italia ha una lunga e opaca tradizione in questo senso. Una delle ragioni del sottosviluppo meridionale fu la decisione presa nel 1861 di unificare con cambio alla pari la lira sabauda e la lira tornese borbonica, che probabilmente valeva solo un quarto. Fu un metodo efficace per bloccare l’industria meridionale e ancora non sappiamo se fu fatto per incoscienza, ignoranza o lucido disegno.  Mi chiedo cosa dobbiamo aspettarci oggi con l’assenza di qualsiasi dibattito intorno a questa vitale questione.