Anna Lombroso per il Simplicissimus

Pare non ci siano più i Grandi Annunci di una volta, quelli che mettevano paura davvero, gli avvertimenti della minaccia ancora sconosciuta, che si prepara e presto sarà fin troppo nota: il virus mortale, l’aulin mortale, l’ondata mortale. Ondate che si accavallano, vulcani che si svegliano e sputano catastrofe, oceani che si alzano a sommergere San Francisco e Venezia, presagiti da comete, eclissi, macchie solari, cerchi perfettamente tondi su pianure perfettamente piatte.

Prima questi Grandi Avvisi a carattere globale mettevano appunto un Timore Globale. Un po’ alla volta ci siamo abituati, anzi cominciavamo quasi ad affezionarci, ché a forza di sentirli annunciare ci erano quasi familiari, quasi domestici, inevitabilmente ineluttabili. Naturali insomma in tempi in cui non lo sono più le catastrofi per lo più provocate della dissennatezza umana e da qualche giorno nemmeno rimborsabili. Meno terrificanti della paura sconosciuta, quella specie di veleno ubiquo che circola ormai ovunque, insinuandosi nelle teste, prende tante strade tante forme. sbuca fuori dal buio, dagli interstizi delle pietre, vien su dall’acqua, si materializza fuori dalla tv, diventa una voce cattiva che esce dal cellulare e ti martella in testa una minaccia sibilante, ti salta su da dentro e si ficca in gola come una lisca di pesce.

Paura dell’ignoto, del vicino che non abbiamo mai visto ma lo sentiamo tossire con una latrato di notte, paura di chi arriva qua e cucina qualcosa che non ha il solito odore di pummarola, paura di qualcosa che abbiamo respirato e chissà cosa ci farà, paura dell’incertezza e dell’unica sicurezza che ci resta, la miseria.
È che siamo generazioni, salvo qualcuno, che non hanno conosciuto la guerra. e che hanno avuto poco a che fare col sacrificio e anche con la speranza, che chissà come finisce sempre per venire in superficie suscitata da secoli di sudore, di miserie di accettazioni silenziose o rabbiose di vita ingrata. Quei “due soldi di speranza” che pagavano la fine della fame in cambio di posti ostili, lingue ignote, ancora paura, ma una paura viva dalla quale germinava orgoglio.

Abbiamo avuto piccole apocalissi personali, quando ti muore qualcuno è la tua fine del mondo privata, quando finisce un amore ti vedi diverso e spaesato con te stesso, quando perdi il lavoro sei solo con quella minaccia che ti stringe la gola e fa male come un gomitolo di filo spinato.
Ma adesso c’è qualcosa di diverso, quella sensazione che un potere avido, implacabile, inumano ci abbia presi per i capelli e ci trascini giù con lui mentre si avvita su se stesso in gorghi di dispotica e immateriale avidità.
Abbiamo paura perché la minaccia viene nutrita, alimentata, gonfiata: si pensa che la gente ricattata dall’angoscia e dallo sgomento si possa meglio dirigere come un gregge guidato da un cane che abbaia e morde. Così i vecchi annunci sono sostituiti dagli avvertimenti sibilati, dalle sprezzanti reprimende e da potenti mistificazioni, simulacri orrendi che devono avere la forza persuasiva all’ubbidienza di divinità e demoni. Dovremmo avere paura della Grecia, di chi sta peggio di noi, della disperazione di altri più che della nostra, di fame più affamata, di guerre lontane non perché siamo umani e ce ne doliamo, ma perchè possono spingere qui altri umani, altre vittime, altri sopravvissuti.

Siamo generazioni che non hanno vissuto una guerra, se non quelle che facevano irruzione dal televisore, prepotenti tanto che a volte distoglievamo lo sguardo e abbassavamo il volume, così gli scoppi erano sostituiti dal tintinnare del ghiaccio nel bicchiere di scotch. Forse è per quello che non ci accorgiamo che probabilmente è cominciata una specie di guerra infinita, qualcosa che non era contemplato nella polemologia classica, qualcosa che ancora sembra essere immateriale perché fa parte del processo di autodistruzione della società occidentale. È una guerra contro la libertà, i diritti, il lavoro, le persone e la loro aspettativa di futuro. Quello che succede nella terra che ha dato forma a quell’acqua limpida che disseta e rafforza e che è stata chiamata democrazia, quello che succede da noi, è casuale, non è irrazionale; è la distruzione sistematica di una “parte sostanziale” della comunità, allo scopo di trasformarla e ridefinire il modo di essere, le relazioni sociali, l’appartenenza e il riconoscimento in una idea di civiltà.

Agiscono come altri autoritarismi del passato, coprendo gli errori e le ingiustizie di chi ha rubato; togliendo spazio per altre idee e tipologie di pensiero, di inclinazioni e di persone; allargando la voragine incolmabile tra chi possiede e quelli cui è negato anche l’essere, incrementando feroci disuguaglianze. Poi hanno tolto il gusto della politica, del partecipare alle scelte, hanno irriso la storia e la memoria di quando eravamo popolo, per ricollocarci nell’umiliante identità indifferenziata di moltitudine, di massa. Hanno spogliato gli stati di sovranità, moneta e potere contrattuale, quegli stati la cui ragion d’essere era fondata sulla promessa di proteggere i cittadini. Ci hanno promesso una felicità che passava per i consumi e l’accumulazione di beni superflui e ci negano quelli necessari, pane certo, ma soprattutto istruzione, servizi, cura, bellezza, risorse, allegria di certe giornate che vivi senza pensieri anche se sei senza soldi.

Qualcuno ha detto che siamo condannati alla vigilanza perpetua. Forse non è una condanna, forse è la prova dell’esistenza in vita della consapevolezza, del pensiero, della ragione. Forse questo è il secolo della catastrofe, ma potrebbe essere il secolo del riscatto.