Anna Lombroso per il Simplicissimus

Notizie di oggi: Iveco chiuderà cinque stabilimenti in Europa. Lo ha annunciato il Ceo Alfredo Altavilla, nel corso della presentazione del nuovo Stralis a Torino. «Saranno coinvolte 1.075 persone – ha detto Altavilla – stiamo negoziando con i sindacati. L’obiettivo è chiudere entro l’anno … Sono misure dolorose  ma servono a rafforzare l’azienda nel suo complesso. Non abbiamo tagliato investimenti. Quando ci sarà la ripresa i mercati ci troveranno pronti». Dopo la chiusura degli stabilimenti di autobus di Avellino e Barcellona, ora chiudono le 5 fabbriche entro l’anno:  cinque stabilimenti sono due in Germania, Weisweil e Ulm (dove però nascerà un centro di eccellenza per i mezzi antincendio), uno in Francia Chambery, e due in Austria, Graz e Goerlitz.

La Fiat si appellerà all’ordinanza del Tribunale di Roma e chiederà alla Corte d’Appello di sospendere l’esecuzione dell’ordine di assumere a Pomigliano i 145 lavoratori iscritti alla Fiom.  «Fabbrica Italia Pomigliano (Fip) – spiega il Lingotto in una nota – ha esaminato nel dettaglio la recente decisione del Tribunale di Roma che impatta sulle attività del suo stabilimento. Sulla base di questo esame, la società è giunta alla conclusione che la decisione debba essere impugnata per numerose ragioni, sia in fatto, sia in diritto. L’appello è in fase di deposito e la società ha fiducia che verrà accolto. Allo stesso tempo, Fip chiederà alla Corte di Appello di sospendere l’esecuzione dell’ordine di assumere 145 persone attuali dipendenti di Fiat Group Automobiles (Fga) solo perchè in un certo momento iscritte alla Fiom».

Il processo di entusiastica americanizzazione è il caposaldo della  teologia cui si ispira Marchionne, il manager più amato dai padroni.

nella sua storica intervista sui delitti e sulle pene (intendendo come delitto l’aspirazione al lavoro e come pena la conseguente e punitiva cancellazione dei diritti)  la  Fornero ha spiegato al giornale di Wall Street che l’Italia «non è un paese basato sulle regole; si manipolano, si tirano di qua e di là, aggiustandole secondo le proprie convenienze. Questo deve finire». State tranquilli non si riferiva a Marchionne, ma molto probabilmente alla insubordinazione dei magistrati che in tempi di necessità, di crisi, di emergenza hanno osato ristabilire i principi dello stato di diritto, futile ostacolo alla loro desiderabile flessibilità.

Si dietro alla tracotanza usuale della improvvida  ministra  c’è la tenace fidelizzazione a un impianto teorico: la disoccupazione non è mai involontaria, ma è sottomessa alle condizioni alle quali i lavoratori sono disposti a lavorare. E tra queste riserve c’è anche quella di non iscriversi a un sindacato che contesti gli accordi imposti dall’azienda.  Fornero si confessa a un giornale americano per il quale questa è la norma e .
Marchionne è là per  trasferire da noi il modello di relazioni industriali americano. Che si fonda solidamente su due principi:  che il sindacato deve essere fuori dai luoghi di lavoro; e che se è all’interno,  è obbligato a sottomettersi alle richieste dell’azienda.

Si che gli Stati Uniti vedono come una missione quella di “esportare”, soprattutto prodotti tossici: la democrazia secondo la Cia, il profitto sotto forma di derivati, la globalizzazione intesa come cancellazione di identità e sovranità di popoli. E noi stiamo mutuando disinvoltamente l’abbattimento di quel pilastro della democrazia industriale rappresentato dalla legge Wagner voluta nel 1935, in pieno New deal, da Franklin D. Roosevelt, che fece del sindacato  un pilastro del sistema economico americano, come lo descrive Galbraith  nel suo  saggio del 1968, Il nuovo Stato industriale”.  Con un colpo di mano Ronald Reagan, licenziando in tronco i 12.000 lavoratori addetti alla regolazione del traffico aereo, atto simbolico per dimostrare che i lavoratori in sciopero potevano essere sostituiti da altri non affiliati ai sindacati, legittimò le imprese  a adottare le misure necessarie a impedire che i lavoratori potessero mettere piede nelle aziende applicando largamente  la pratica referendaria. E la presenza esigua del sindacato, dove c’è, è ricattata, angariata, condizionata a subire fino all’inazione, fino a subire l’ultimo nodo scorsoio: sono sempre più numerose le aziende che interrompono i negoziati per il rinnovo dei contratti e attuano la serrata. Come ha detto la ministra del lavoro nella sua esternazione incauta al Wall Street Journal: «Questa riforma (del lavoro) non è perfetta… ma per gli italiani è anche una scommessa sulla possibilità di cambiare per molti versi i loro comportamenti».

E rappresenta il “banco di prova” del cambiamento imposto dallo svuotamento dell’art.18: chiudendo una parabola che ha abbracciato quattro decenni all’insegna della garanzia della dignità del lavoro, Marchionne organizza, anzi razionalizza la fabbrica all’amerikana, a Pomigliano fa una serrata selettiva per una parte ben identificata   dei lavoratori e in barba a un giudice che ha la sfrontatezza di mettersi di mezzo. Manomessa la norma antiricatto si può   contare su uno strumento potente di dominio, costituito dalla minaccia sempre incombente sul lavoratore di licenziamento, giustificato o meno.

E al tempo stesso  i rappresentanti dei lavoratori dove non c’è lavoro e dove se c’è è sempre più precario e minacciato, sono sempre più impotenti e vulnerabili, sempre meno combattivi.  Gioco facile per Marchionne imporre, anzi fa credere che sia auspicabile, desiderabile il modello americano di competitività delle imprese e di modernità delle relazioni industriali. In fondo con un certo perentorio candore i repubblicani hanno dichiarato in pieno Congresso che il loro scopo, ma anche, guarda un po’ di qualche democratico, è quello di annullare le conquiste in tema di protezione sociale ottenute dalle classi lavoratrici e medie negli ultimi decenni. E uno strumento docile e efficace è proprio la delocalizzazione che non consiste solo in uno spostamento della produzione e in un mutamento dell’organizzazione, ma anche in un attacco alle condizioni di lavoro, di vita, di garanzie di chi resta, si dividono i lavoratori, si alimenta con la competizione tra disperati la rottura di qualsiasi patto di solidarietà. E tutto questo in attesa che la terzo-mondializzazione dell’Occidente si compia, che la diffusione di condizioni e modi di produzione “informali” e spesso illegali – comunque inumani – applichi l’aspirazione aberrante della globalizzazione, un mondo in cui eserciti di schiavi come orde disorientate vengono spostate secondo i comandi del profitto.