grandi opereAnna Lombroso per il Simplicissimus

Forte denuncia del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi “è imprescindibile, se vogliamo continuare a essere un paese ancora in grado di attrarre investimenti e mantenere uno sviluppo industriale moderno, esigere un nuovo quadro normativo ambientale allineato agli standard europei e un radicale intervento di semplificazione amministrativa sulle procedure”. E ancora: “Non abbiamo il Papa ma dobbiamo comportarci comunque da cristiani….siamo tutti sulla stessa barca e dobbiamo cominciare a remare tutti nella stessa direzione”. E come? Con le grandi opere infrastrutturali, senza le quali “il nostro Paese andrebbe verso una direzione tra l’agreste e il bucolico”. E poi con la semplificazione di controlli e procedure burocratiche per la concessione delle autorizzazioni, che oggi registrano “tempi biblici, con il record del Friuli Venezia Giulia, dove le tempistiche hanno raggiunto i 4 anni”.

A prima vista verrebbe da dargli ragione: un Paese moderno e competitivo si deve distinguere per dinamismo e trasparenza. Le imprese devono dimostrare la loro affidabilità e la loro responsabilità sociale, compatibile con le istanze di profitto e l’apparato statale deve con fiducia e efficienza sostenerle e favorire la loro produttività, oltre che vigilare sul rispetto di leggi e regole.
Certo, verrebbe da dargli ragione. Ma un Paese moderno e competitivo, e verrebbe da dire “civile”, no sarebbe costretto a subire il ricatto – e a perdere – tra salute e posto di lavoro, tra tutela ambientale e occupazione. Un Paese civile non dovrebbe sopportare l’affronto della sentenza d’appello della Thyssen. Un Paese civile non lascerebbe impuniti una classe imprenditoriale e i suoi manager che applaudono a degli assassini accertati, nel timore che la giusta pena scoraggi l’arrivo magari di altri criminali desiderosi di comprarci a fettine e a prezzi di liquidazione.

Un Paese moderno, competitivo dovrebbe vantare un ceto industriale che investe in innovazione, tecnologia, sicurezza e in quel benessere che deriva dall’armonia delle relazioni sociali dal riconoscimento del valore del lavoro, presupposto indispensabile per la produttività, anziché basare le sue aspirazioni di profitto nel gioco d’azzardo finanziario. Un Paese maturo e responsabile dovrebbe emarginare manager impegnati solo a assecondare le smanie rapaci dell’azionariato, inadeguati a perseguire politiche industriali che non siano solo la salvifica pratica della delocalizzazione.

Eh si, il Dottor Squinzi avrebbe ragione se i tagli della spesa non avessero “provvidenzialmente” ridotto personale e strumenti di controllo, attribuendo alla crisi gli effetti di un istinto che appartiene all’ideologia dei governi che si sono succeduti, l’indole a aggirare, trasgredire, omettere in nome della libera iniziativa, a scavalcare con acrobatica operosità obblighi, intesi come lacci, laccioli, ostacoli a produttività e profitto.
Avrebbe ragione se la corruzione non avesse bisogno della sottoscrizione del patto scellerato tra due attori, se le imprese non offrissero regalie e favori e funzionari, amministratori e politico sleali non li accettassero entusiasticamente, prestandosi a perpetuare condizioni di illegalità e insicurezza.
Avrebbe ragione se il sistema bancario si prefiggesse obiettivi di investimento per contribuire a rilanciare uno sviluppo sostenibile, per finanziare innovazione, creatività e imprenditorialità in condizioni di sicurezza e equità, anziché praticare la ginnastica funambolica degli strumenti finanziari creativi.
Avrebbe ragione se il ceto confindustriale non avesse con determinazione e tenacia sostenuto il disegno suicida perfino per il capitalismo, di corrodere la sovranità economica della Stato per esaltare l’egemonia e per appagare l’avidità del settore privato.

È che i padroni chiedono, chiedono, senza dare nulla, cristianamente postulano condivisione tra chi ha e chi non ha, fratellanza tra chi comanda e chi ubbidisce: siamo nella stessa barca, dice Squinzi, dice Ichino, dice Monti, dice Sacconi, dice Bersani, dice Tremonti.
Quella barca si sa è il Titanic e insospettisce che un viaggiatore di prima classe si ricordi di chi viaggia nella stiva e addirittura dei clandestini. Deve aver già sentito l’orrendo crack contro l’iceberg ed è preferibile tenersi stretto il salvagente.