943223_603384626341079_1548885642_nAnna Lombroso per il Simplicissimus

La commemorazione delle speranze di riscatto dallo sfruttamento e del lavoro che non c’è, è amara. E lo è ancora di più se anche in questo caso verità e indagine storica sono stati investiti da quell’indecente consuetudine così in voga, ispirata a una sedicente risoluzione pacificatrice dei conflitti e degli antagonismi, confondendo i confini di ciò che è giusto o iniquo, il destino di chi, magari solo per via della lotteria naturale, è vittima o carnefice, sfruttato o padrone. Lavoratori sempre più umiliati, offesi, minacciati, lasciati sempre più soli dalla latitanza di movimenti organizzati e partiti che ne rappresentino le ragioni, sono oggetto di una campagna “propagandistica”, intesa a consolidare un castello di menzogne edificanti: siamo tutti nella stessa barca, padroni e operai, manager inamovibili preoccupati solo di alimentare il patrimonio degli azionisti e quello personale insieme ai precari, fan della flessibilità e vittime del disordine chiamato mobilità, le larghe intese devono ispirare tutte le azioni, governative e sociali, ricomponendo millenarie contese e inducendo indulgente e giudizioso oblio di ingiustizie e sopraffazioni.

Proprio ieri a margine di un post sulla strage di Dacca dove sono 381 morti operai tessili nel crollo di una fabbrica, sono stata costretta a misurare in alcuni commenti la potenza di quella insidiosa manipolazione della realtà, che conferma la fantasiosa capacità di manifestarsi del razzismo, che discrimina in nome di colore, etnia, religione, ma che ha come filo conduttore l’eterna intolleranza di chi possiede nei confronti di chi non ha, di chi sta più su rispetto a chi viene tenuto sotto, di chi vede in chi non ha nulla una minaccia ai suoi beni e privilegi, sia pure miserabili. L’ antropologia dell’invidia e del risentimento, di chi è nato avvantaggiato e usa le sue prerogative solo per condannare a una perenne marginalità che conferma la sua “superiorità” immeritata si esprime in un meschino realismo, in quel pietismo peloso secondo il quale globe trotter dello sfruttamento proprio come la manina di Adam Smith, incrementando la loro ricchezza grazie ad avidità e accumulazione rapace, contribuiscono all’emancipazione di popoli inferiori, spargendo in terra la polverina del benessere, arbitraria sì, ma che finisce per incipriare anche i derelitti.

Tutto contribuisce al consolidamento della retorica dello sfruttamento, le foto degli slums con le antenne paraboliche, i drop out e i neo barboni con il cellulare, per fare intendere che l’abuso e la speculazione sono un Giano bi-fronte, che con l’imposizione di modelli di sviluppo ineguali porta anche benefici effetti e provvidenziali ricadute, dimenticando – e proprio il Bangladesh è una regione esemplare, una appropriata allegoria – che il vero esito è un drammatico e implacabile accrescimento delle disuguaglianze con ricchi – sempre meno numerosi – sempre più ricchi e poveri – sempre più numerosi – sempre più poveri.
È che i padroni sono riusciti in quello che non è mai invece riuscito ai lavoratori: unirsi in una necessaria alleanza, stringersi in un patto per il riscatto della dignità e dei diritti.

Gli sciocchi fanno danno anche a loro stessi, se non vogliono sapere che l’aumento dei salari e il miglioramento delle relazioni industriali e l’affermazione dei diritti di lavoro nei paesi emergenti è l’unica condizione per preservarli qui, per contrastare il formarsi di un terzo mondo interno. Se un’industria dei Paesi occidentali minaccia di de localizzare per passare dai 20 euro l’ora che paga in patria al dollaro l’ora o anche meno che paga in Bangladesh, i lavoratori italiani, americani, europei sono costretti ad accettare una dequalificazione e un impoverimento di paga e garanzie, un arretramento dettato dal ricatto, come un effetto cumulativo della lotta di classe.

La moltiplicazione delle disuguaglianze, con le differenze e le discriminazioni scavate all’interno della classe dei lavoratori “globali” e all’interno dei paesi, fa disperare della possibilità di contrastare i signori della guerra di classe, con la forza della pace tra i poveri.